Vale ancora la pena partecipare alle fiere alimentari?

 

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La risposta più facile a questa domanda sarebbe “dipende”, ma poichè la parola dipende è un’offesa all’intelligenza (tutto dipende..), io dico si, se le imprese ragionano e se si uniscono per rivoluzionare il modo di parteci

pare a una fiera. Ideale sarebbe che la rivoluzione fosse supportata dall’ICE, e se quest’ultima si autorivol

tasse come un calzino e si imponesse come soggetto unico della promozione Italiana. Penso che le fiere siano ancora importanti ma che oggi, tranne rari casi, servano per incontrare i clienti che si hanno già, e che d

i conseguenza il ritorno sull’investimento sia troppo basso. Serve un cambio di passo, che finalmente il mitico Sistema Italia prenda forma, almeno nelle fiere di settore.

A quale fiere val la pena partecipare?

Per il mercato europeo le fiere che contano sono il Cibus a Parma, che solitamente si tiene a maggio, il Sial a Parigi (ottobre), l’Anuga a Colonia (ottobre), il Vinitaly a Verona (marzo), il Vinexpo a Bordeaux (giugno).

Per il mercato Asiatico: Sial a Shanghai (maggio), Foodex a Tokio (marzo)

Per il mercato USA: Fancy Food Show a San Francisco e a Washington (gennaio e giugno), e Food and Wine Classic ad Aspen (giugno).

Per il mercato Ara

bo: Gulfood a Dubai (febbraio).

Ovviamente non tutte queste fiere si svolgono ogni anno; esistono una miriade di fiere in aggiunta a queste, che posso essere utili in certi mercati, su specifici prodotti o categorie (ad esempio il biologico).

 Con quali aspettative?

Di pubbliche relazioni di medio periodo. Se oggi uno ha soldi per comprare, ha la fila di venditori alla sua porta, non ha bisogno di spostarsi. Va in fiera per vedere se c’è del nuovo, se c’è qualcuno che lo può far guadagnare di più, per scoprire se c’è un prodotto innovativo, per imparare. Quindi se siamo presenti, possiamo intercettare questo inconscio desiderio d’infedeltà dei nostri clienti, far vedere che siamo nel mercato, che investiamo nella rela

zione. Viceversa, se i clienti non li abbiamo possiamo approfittare di questa finalità del visitatore. Ma è un processo lungo, in entrambi i casi, è una strada  “goccia a goccia”, che richiede investimenti pluriennali, e una presenza costante alle medesime fiere.

Con quale modalità?

Con l’unica modalità che può consentire investimenti contenuti e il beneficio per tutte le imprese della forza del brand Italia: smetterla con gli stand individuali, realizzare in fiera un grande padiglione Italia, che rappresenti l’Italia e organizzare nella città in cui si tiene la fiera uno spazio comune di intrattenimento “dopo salone”.

Il padiglio

ne Italia

Viene ribaltato il concetto degli “stand a schiera”, al suo interno ci sono isole dedicate alle diverse categorie di prodotto: salumi, formaggi, bakery e così via. Gli spazi vengono razionalizzati: ogni impresa ha la sua zona di esposizione ma le aree dove ci si riunisce con i clienti sono comuni, tante mini zone riunione arredate con il meglio del design italiano, e con un servizio al tavolo di caffetteria. Come in azienda, si prende un appuntamento, con il massimo della concentrazione. Al centro del padiglione c’è la scuola di Food and Wine italiano per i buyer e per i buyer del futuro: una serie di lezioni di mezz’ora, ogni giorno una categoria di prodotto diverso, ogni impresa prenota del tempo per illustrare ai buyer come guadagnare con i propri prodotti, con gli argomen

ti che vogliono sentire: modalità di vendita, di servizio, costo pasto, calo peso… il tutto alla presenza di chef e sommelier indipendenti.

Il dopo salone

Un hotel della città in cui si svolge la fiera diventa la casa base italiana del “dopo salone”: si mangia italiano, si possono acquistare prodotti, il room service è italiano, ci sono giochi che coinvolgono i visitatori sull’abbinamento dei cibi con i vini, ci sono speech di grandi chef sul loro modo di cucinare, sui loro territori, aperte al pubblico di consumatori. Dall’ora dall’aperitivo in poi, le imprese possono invitare i propri ospiti in un’area riservata, dedicata all’intrattenimento: lounge bar e musica, in quei giorni è il miglior locale della città. L’hotel in questione diventa un media dedicato a dare visibilità alle imprese italiane; le imprese possono incontrare i buyer in un ambiente informale, quello che consolida le relazioni.

Ci vuole l’ICE, ma un ICE diversa.

Sono andato all’Anuga a Colonia. Le nostre imprese erano tantissime, i prodotti spettacolari, tanta vitalità in ciascuna di esse. Ma questa fiera è stato lo specchio di come ci presentiamo all’estero, passano gli anni ma certi difetti non riusciamo a correggerli. Immaginate di essere un buyer in fiera: se siete interessati a una categoria di prodotto (ad esempio i formaggi), andate nel padiglione dedicato a quel prodotto; se cercate prodotti di un Paese, andate nel padiglione di quel Paese. All’Anuga per trovare i formaggi italiani, dopo aver camminato tre ore nel padiglione dedicato, sareste dovuti andare in almeno tre padiglioni diversi. Pochi hanno deciso, logicamente, di farlo. La presenza italiana era polverizzata: stand individuali, stand dell’ICE, stand delle regioni, stand dei consorzi, stand di gruppi d’imprese finanziati in parte dalle regioni, stand delle camere di commercio, stand d’imprese di promozione delle camere di commercio, stand di consorzi, stand di comuni!. Risultato? Il padiglione dei salumi e formaggi era stracolmo, gli altri, quelli in cui c’erano le istituzioni italiane, no. I produ

ttori italiani di salumi e formaggi che hanno fatto da soli hanno intercettato questo pubblico, chi ha scelto spazi gestiti dalla organizzazioni pubbliche molto meno, e le loro facce parlavano chiaro.

Esiste un numero spropositato di organizzazioni che si occupano di promozione, per quattro motivi: 1- non ci sono più soldi pubblici da sprecare 2- ai compratori internazionali interessa che il prodotto sia italiano, non pugliese, o piemontese, o della provincia di Modena o di Reggio Calabria. 3- i nostri concorrenti si presentano compatti, forti, integrati. L’ICE c’è ed è stato recentemente riconfermato alla guida della promozione italiana. E’ assurdo che ci sia questa competizione tra imprese di promozione centrali, regionali, provinciali, addirittura cittadine, ed è sciocco anche pensare che queste organizzazioni locali siano nate per sfizi di qualcuno: evidentemente l’ICE del passato non è stata soddisfacente. Gli imprenditori italiani, ne sono convinto, si augurano che:

–       ci sia solo l’ICE, unica regia per la promozione del meraviglioso brand Italia

–       che trattenga i suoi migliori collaboratori (ce ne sono) e si liberi di tutta una serie di personaggi di dubbia competenza, se non quella di organizzare degustazioni e cene a spese degli imprenditori con i soliti quattro amici buyer impegnati a fare i complimenti su quanto ingerito ma che non comprano mai nulla

–       che crei una generazione di professionisti dell’F&B assatanati di vendere il prodotto Italia nel mondo HORECA

–       che q

uesti professionisti conoscano i prodotti, i mercati, i compratori, i concorrenti, insomma che siano simili ai venditori ideali che ogni imprenditore vorrebbe con sè.

In sintesi: impariamo dalle esperienze di successo

Non è difficile né complicato, selezioniamo le fiere, mettiamo insieme gli investimenti, creiamo una regia unica, innoviamo il modo di stare in fiera, organizziamo dei “fuori salone” che, come al salone del mobile di Milano, consentano di far parlare un’intera città e i media di una Nazione dell’Italia; risparmieremo soldi preziosi e metteremo in grado i nostri imprenditori di essere visibili come si meritano, e non, come all’Anuga, in un angolo del padiglione occupato dalla Turchia, questa si, unita.

E se non c’è la rivoluzione?

Se fate formaggi, organizzatevi per tempo, selezionate con cura un paio di fiere all’anno, negoziate i prezzi, e, prima che accadano le cose che abbiamo scritto, o altre che vadano nella stessa direzione, andate da soli nel padiglione dei formaggi. Per evitare questo finale triste, impegnatevi per fare la rivoluzione.